858 Alfio Garrotto Articoli
9 febbraio, 2021

Diabete di tipo 2: il fegato è a rischio

L’incidenza del diabete, in tutte le sue varianti, è molto alta (secondo le ultime stime mondiali ne è affetto circa l’8,5% della popolazione mondiale) e proprio per questo motivo dalle pagine di questo blog ho più volte trattato questa patologia come argomento di vasto interesse, sia in correlazione alla pandemia in corso, sia per approfondire una tipologia insidiosa come quella del diabete LADA, sia in altri frangenti per parlare di diabete in generale e mettere in allarme circa le probabilità che nei prossimi anni si raggiunga un picco ancora maggiore di malati. Quest’oggi, viste le importanti novità che provengono da uno studio pubblicato su Diabetes Care[1], portato avanti dall’Università di Milano-Bicocca, mi accingo a tornare sull’argomento e a prendere in considerazione il diabete di tipo 2, il quale, come dimostra questo studio può causare complicazioni al fegato, anche piuttosto gravi.

La ricerca a cui faccio qui riferimento è stata coordinata dal Professor Gianluca Perseghin, docente all’Università di Milano-Bicocca di Endocrinologia, e ha dato conferma del fatto che sia necessario operare uno screening su vasta scala dei pazienti affetti da diabete di tipo 2 per verificarne eventuali danni epatici. Tali screening ad oggi non vengono svolti in maniera routinaria come invece accade per il monitoraggio dell’insorgenza di eventuali malattie cardiovascolari e renali (che possono appunto verificarsi in correlazione al diabete), ma lo studio pubblicato su Diabetes Care ci dice il contrario: anche il fegato va monitorato, in quanto 1 paziente su 5 con diabete di tipo 2 è esposto a complicanze epatiche e i risultati italiani, messi in comparazione con quelli condotti dal ministero della Salute statunitense (che ha operato uno screening della popolazione generale), lo evidenziano con maggiore forza, visto che anche lì il 20% dei pazienti americani con diabete di tipo 2 presentano una compromissione del fegato.

Se, insomma, fino ad oggi la correlazione tra il diabete e il così detto “fegato grasso” considerata pressoché benigna, ha fatto sì che non si procedesse con uno screening capillare, vista anche la pericolosità e l’invasività della biopsia epatica (tecnica diagnostica usata in questi casi), ora dopo i risultati della ricerca in oggetto si sta tentando, sempre all’Università di Milano-Bicocca nel reparto di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo, di sviluppare un metodo diagnostico che escluda l’esclusivo ricordo alla biopsia epatica in favore di altre metodologie (tramite bio-marcatori) che siano meno invasive ma che, allo stesso tempo, consentano comunque di monitorare lo stato epatico del paziente diabetico.

Come ha dichiarato il Professor Perseghin: «Non esiste un tessuto, organo o apparato che non sia interessato dagli effetti negativi del diabete. Una quota di pazienti non trascurabile può sviluppare, soprattutto se obesa, un vero e proprio processo infiammatorio del fegato che predispone all’insorgenza della fibrosi e cirrosi epatica. Lo studio suggerisce due azioni importanti: aumentare la consapevolezza degli operatori sanitari che si prendono cura del paziente affetto da diabete e quella del paziente stesso della possibile complicanza epatologica del diabete; sviluppare e validare metodiche sempre più affidabili, semplici di utilizzo nella routine clinica e poco costose da poter applicare in una popolazione di individui così numerosa come quella dei pazienti con diabete»[2].

Il diabete di tipo 2 dunque, come malattia metabolica largamente diffusa, è da tenere sotto controllo poiché riduce sensibilmente sia l’aspettativa di vita di chi ne è affetto, sia la qualità della stessa potendo comportare molte e disparate complicazioni, anche estremamente invalidanti e in grado di compromettere, appunto, la funzionalità di organi vitali. Come si legge dalle pagine del Diabets Research Institute le più frequenti sono quelle che intaccano il «cuore (infarto del miocardio, cardiopatie), i reni (insufficienza renale), i vasi sanguigni (ipertensione o altre malattie cardiovascolari, ictus, ecc.), gli occhi (glaucoma, retinopatie, ecc.)»[3], e a queste, adesso, dovremmo aggiungere anche quelle che implicano il fegato.

Cerchiamo allora di educare alla conoscenza di questa malattia, non sottovalutandola e soprattutto non sottovalutandone mai i fattori di rischio che ci rendono più esposti a svilupparla, come ad esempio il peso troppo elevato, l’inattività fisica, dei valori di colesterolo e trigliceridi fuori norma. Uno stile di vita sano e consapevole può fare la differenza in ottica preventiva, e sul lato clinico, invece, bisogna cercare di perseguire quelle azioni per il futuro che suggeriva il dottor Perseghin e in particolare lo sviluppo e la validazione di metodiche tali da poter raggiungere uno screening sempre più capillare e affidabile da inserire nella ruotine clinica.

Alfio Garrotto