Novità diagnostica per il tumore del colon-retto
Il tumore del colon-retto è una patologia molto diffusa, tanto da essere una delle neoplasie con incidenza maggiore nei Paesi occidentali, seconda soltanto al tumore della mammella per le donne e ai tumori del polmone e della prostata per gli uomini. Solitamente si sviluppa con una maggiore frequenza nella fascia d’età compresa tra i 60 e il 75 anni, ma negli ultimi anni i ricercatori hanno potuto notare un abbassamento dell’età dell’insorgenza (anche nella fascia tra i 40 e i 60 anni d’età). Si ipotizza che un grande ruolo nello sviluppo di questa malattia, infatti, sia causato anche dal cambiamento dello stile di vita e di una dieta disordinata, povera di fibre e vegetali e troppo ricca di carne rossa (che andrebbe consumata non più di una-due volta a settimana, 350 gr. totali, ed evitando un’eccessiva cottura).
Una caratteristica di questo tumore che può essere da un lato insidiosa, ma dall’altro costituire invece un’opportunità è la modalità d’insorgenza. Il tumore del colon-retto, infatti, è molto lento nel suo sviluppo e ci vogliono anche 5-10 anni affinché si manifesti. L’insidia risiede nel fatto che nelle primissime fasi e quindi anche per lunghi periodi la diagnosi è molto difficile, anche perché la sintomatologia prevedendo stipsi, stanchezza, mancanza di appetito, talvolta perdita di peso, fa sì che questi campanelli d’allarme siano spesso trascurati dal paziente. L’opportunità, allora, dove sarebbe? Nell’usare questo tempo che si ha a disposizione (talvolta molto lungo) per procedere tramite lo screening regolare a una diagnosi precoce. Dopo i 50 anni, ad esempio, sarebbe bene verificare regolarmente (ogni due anni) le feci o procedere, in presenza di avvisaglie maggiori, alla colonscopia totale o parziale. «In caso di familiarità la colonscopia è indicata a partire dai 45 anni oppure 10 anni prima dell’età della diagnosi del parente di primo grado. L’esame, se negativo, va ripetuto ogni cinque anni. La ricerca del sangue occulto nelle feci, in questi casi, viene effettuata annualmente»[1].
Agli utilissimi e importanti metodi diagnostici sin qui elencati si vanno aggiungendo, grazie alla ricerca, degli altri ancor più precisi e in grado di individuare il tumore anche in fasi molto precoci.
È proprio della scorsa estate la grande novità di cui possiamo avvalerci nell’approccio diagnostico all’insidioso tumore del colon-retto. La dottoressa Noemi Bellassai, giovane assegnista di ricerca dell’Università di Catania, ha portato avanti lo studio alla base delle novità in questione ed è addirittura stata premiata con la prestigiosa Medaglia Leonardo Da Vinci, riconoscimento promosso dal miur e gestito dalla crui (Conferenza dei rettori) per la valorizzazione internazionale delle competenze e delle capacità del capitale umano che opera nell’alta formazione e nella ricerca in Italia. In cosa consiste la ricerca della Dottoressa Bellassai?
La ricerca ha preso le mosse dall’«analisi molecolare di biomarcatori circolanti nel sangue periferico tramite una piattaforma molecolare basata sulla tecnica Surface Plasmon Resonance Imaging (SPRI)». Per poter portare a termine l’analisi molecolare bisogna partire dalla biopsia liquida, che è un esame non invasivo, altamente sensibile e, soprattutto, economicamente vantaggioso, con il quale si è reso possibile «isolare e individuare frammenti di DNA di origine tumorale e altre molecole target, quali ad esempio proteine e microRNA e cellule tumorali circolanti nei fluidi biologici (sangue, plasma, siero, urine e saliva), da campioni di pazienti con cancro sospetto o diagnosticato»[2]. Tutto questo grazie alla creazione da parte della dottoressa Bellassai di un biosensore plasmonico ultrasensibile che, integrato a un circuito microfluidico e a nanostrutture, potesse essere in grado di rilevare anche le più piccole mutazioni puntiformi presenti nella sequenza del gene KRAS, ossia il gene riconosciuto come target molecolare presente nei pazienti affetti dal tumore del colon-retto.
Scoprendo, dunque, questa mutazione genomica nei biomarcatori tumorali circolanti si è puntato a sviluppare delle piattaforme molecolari che fossero in grado di analizzare con maggiore precisione le biomolecole d’interesse direttamente nel sangue periferico anche di pazienti che fossero allo stadio iniziale della malattia. Questo tipo di approccio, come possiamo leggere dalle parole stesse della dottoressa «implica una maggiore tempestività nella diagnosi della patologia, un miglioramento delle attività di controllo clinico nelle fasi post-operatorie e dopo il trattamento terapeutico, una notevole riduzione dei costi. E può consentire di definire un nuovo modello di tecnologia di frontiera in ambito clinico»[3].
Siamo di fronte a un grande passo in avanti per la scoperta precoce di questa tipologia di tumore che, come sappiamo, se preso nelle fasi iniziali può anche essere trattato in modo efficace e risolutivo con la sola terapia chirurgica (senza quindi passare per chemioterapia, immunoterapia, terapia a bersaglio molecolare, ecc.), impedendo così al tumore di avere il tempo per lo sviluppo di metastasi, cosa che comporterebbe invece un diverso trattamento terapico. Ancora una volta dunque possiamo essere orgogliosi dei nostri ricercatori italiani che portano molto frutto alla medicina, non solo a livello nazionale ma anche internazionale, e rendono possibile tramite i loro studi che il paziente sia trattato in modo meno invasivo (anche in fase diagnostica evitando esami molto più intrusivi), e che scopra in tempo la patologia della quale è affetto per procedere tempestivamente alla cura più adegua