E' Nobel: scoperta del virus dell’Epatite C
Qualche settimana fa sono stati assegnati i Premi Nobel 2020 e quello per la medicina e la fisiologia è stato conferito a Harvey J. Alter, Michael Houghton e Charles M. Rice per la scoperta del virus dell’epatite C e aggiungendo nella nota che «grazie alla loro scoperta, sono ora disponibili esami del sangue altamente sensibili per il virus e questi hanno essenzialmente eliminato l’epatite post-trasfusione in molte parti del mondo, migliorando notevolmente la salute globale. La loro scoperta ha anche permesso il rapido sviluppo di farmaci antivirali diretti contro l’epatite C. Per la prima volta nella storia, la malattia può ora essere curata, facendo sperare nell’eradicazione del virus dell’epatite C dalla popolazione mondiale»[1].
I tre vincitori, per l’appunto, hanno condotto delle ricerche pionieristiche in materia giungendo non solo alla scoperta ma anche alla caratterizzazione del virus che comporta l’epatite C, facendo sì che questa malattia diventi meno sconosciuta e quindi conseguentemente più curabile, entrambi aspetti importantissimi visto che è una patologia diffusa in tutto il mondo con circa 100 milioni di malati in forma cronica e circa 400.000 casi di morte per le conseguenze che l’infezione comporta, quali ad esempio la cirrosi e l’epatocarcinoma. L’epatite C, infatti, è una malattia infiammatoria che colpisce il fegato causata dal virus HCV, acronimo dell’inglese Hepatitis C Virus, che rappresenta una delle principali cause di trapianto e dello sviluppo di malattie croniche del fegato. L’infezione acuta da HCV è, molto spesso, di lieve entità e non causa disturbi (sintomi) ma tende a persistere nell’organismo, diventando cronica nel 50-80% dei casi.[2]
Facendo un passo indietro nella storia di questa patologia è a partire dagli anni ’40 che si comincia a comprenderla meglio distinguendo inizialmente tra una prima forma (a cui viene dato il nome di Epatite A) che deriva dai cibi o dalle acque infette e una seconda forma che invece si diffonde tramite i fluidi corporei, molto più grave della prima, connessa anche alla successiva insorgenza di forme croniche della stessa. Solo vent’anni più tardi, negli anni Sessanta, c’è una svolta nella comprensione della malattia individuando le cause che generano le diverse forme di epatite: in particolare grazie al biochimico Blumberg che individua il virus dell’epatite B e dà avvio alla creazione di test diagnostici ed anche di un vaccino. Grazie a questo enorme passo in avanti, però, ci si rende conto che molti casi sfuggono sia alla tipologia A sia a quella B e non riescono a essere tenuti a bada dalle cure allora esistenti. Proprio uno dei tre Nobel di cui abbiamo parlato a inizio articolo, ossia Harvey J. Alter, con una sua ricerca dimostra che l’agente virale che agisce non è assimilabile a quelli già conosciuti, perciò battezzato “né A e né B”, e attacca anche gli scimpanzé. Proprio loro saranno utili nel prosieguo della ricerca, infatti, «Michael Houghton e colleghi dell’azienda farmaceutica Chiron hanno l’intuizione di ricavare dal sangue delle scimmie infette dei frammenti di DNA, in parte derivati dal genoma degli animali e in parte da quello del virus. Dal confronto con i campioni di sangue umano, i ricercatori identificano frammenti di DNA virale clonati responsabili della codifica di alcune proteine virali. La conclusione dello studio è che il misterioso virus appartiene alla famiglia dei Flavivirus e che il suo genoma è in realtà costituito da RNA e non DNA: il nuovo patogeno viene battezzato virus dell’epatite C»[3].
È allora il turno di Charles M. Rice, che fa un ulteriore passo nella conoscenza di questo virus, identificando una regione dell’RNA virale che, in alcuni casi, può presentare una variante in grado di ostacolare la replicazione del virus e di conseguenza capace di bloccare la capacità infettiva del virus stesso. «Grazie ad alcune tecniche di ingegneria genetica Rice sintetizza un RNA privo di queste varianti problematiche e dimostra che il virus è in grado di infettare gli scimpanzé: è la prova definitiva che il virus C è in grado da solo di causare l’epatite».
I tre ricercatori, dunque, premiati con il Nobel per la Medicina hanno reso possibile, in più riprese nel corso degli ultimi decenni, lo sviluppo di test che vengono svolti sul sangue, in modo da evitare che venga utilizzato sangue infetto per le trasfusioni. Grazie alla profonda conoscenza delle caratteristiche del virus, hanno anche sviluppato dei farmaci capaci di impedire la replicazione virale, così che anche i positivi possano evitare che l’infezione diventi a tal punto grave da riuscire a danneggiare le funzionalità del fegato. Tutte le autorità sanitarie internazionali sono fiduciose del fatto che grazie alla diffusione dei test (se essa riesce ad imporsi in maniera capillare) e grazie alla disponibilità di un trattamento realmente efficace contro la malattia, sia possibile nel prossimo futuro dare una decisa svolta nella lotta contro l’epatite C, riuscendo di conseguenza ad abbassare il tasso di mortalità della patologia.
Per conoscere meglio i tre premi Nobel qui di seguito una piccola biografia di ciascuno come riportata ne «Il Post»[4]: Harvey J. Alter è nato nel 1935 a New York e lavora per i National Institutes of Health, una delle più importanti istituzioni pubbliche di ricerca in campo medico negli Stati Uniti.
Michael Houfhton è nato nel Regno Unito negli anni Cinquanta e, dopo la sua esperienza in Chiron in California, si è trasferito in Canada lavorando presso l’Università dell’Alberta.
Charles M. Rice è nato nel 1952 a Sacramento, in California, ed è uno dei più grandi esperti di epatite C: dal 2001 al 2018 è stato Direttore scientifico del Centro per lo studio dell’epatite C presso la Rockefeller University, a New York, con la quale collabora tu
[1] https://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Nobel-per-la-Medicina-2020-a-Alter-Houghton-e-Rice-per-la-scoperta-del-virus-dell-Epatite-C-e13f4432-202e-4d78-ba80-546f566e7800.html