Fibrosi cistica: novità sul fronte terapeutico
La ricerca, come dico spesso, non si ferma mai e anche in un complesso periodo come questo che stiamo vivendo sono sempre tantissimi gli studi che fanno passi avanti nella disciplina medica e ci consentono di progredire nelle nostre conoscenze sia in fase diagnostica che prognostica. Per questo motivo negli ultimi tempi, dalle pagine di questo blog, illustro le novità che provengono dalla ricerca affinché possa passare un messaggio di fiducia per il futuro e nei confronti della scienza.
Scendendo però nel vivo dell’argomento di quest’oggi, ossia la fibrosi cistica, sorge spontaneo partire dalle basi e rispondere alle domande più immediate e basilari: cos’è la fibrosi cistica? Quali sono i sintomi che la caratterizzano? Quali ad oggi le cure e l’aspettativa di vita?
La fibrosi cistica è la malattia genetica, solitamente in forma grave, più diffusa al mondo e dovuta a una mutazione di un gene, il gene CFTR (Cystic Fibrosis Transmembrane Regulator) che regola l’omonima proteina. Chi nasce con questa patologia l’ha dunque ereditata da entrambi i genitori che posseggono ciascuno una copia di questo gene mutato.
Molto spesso chi è portatore sano del gene non ne è a conoscenza. Se la presenza del gene mutato in una sola copia si occupa di sintetizzare la proteina che regola il funzionamento delle secrezioni di vari organi; quando ci sono individui con la doppia copia del gene mutato la proteina in questione funziona molto poco, o affatto, e non è quindi in grado di svolgere il suo lavoro di sintesi correttamente. Secondo i dati forniti dal 12° report[1] della Società Europea Fibrosi Cistica (ECFS) sono più di 5.000 le persone affette da questa malattia e si stima che ci sia 1 portatore sano ogni 25 persone. In caso di accoppiamento con altro portatore sano ci sarebbe una possibilità su quattro di concepire un figlio malato, ossia con la copia doppia del gene mutato. I sintomi della malattia sono vari. Alterando le secrezioni di molti organi, infatti, la fibrosi cistica fa sì che esse siano più dense, e meno fluide di come dovrebbero, provocando un danneggiamento dell’organo stesso.
Nel caso di bronchi e polmoni, che sono quelli più colpiti, il ristagno del muco al loro interno genera infiammazioni anche molto gravi che alla lunga portano all’insufficienza respiratoria. Altri sintomi si sviluppano a carico del pancreas, che non riuscendo a riversare gli enzimi nell’intestino fa sì che vi sia uno scorretto assorbimento dei cibi, un difetto di digestione, diarrea, lentezza nella crescita del bimbo o comunque un pessimo stato nutrizionale per l’adulto, generando così (molto spesso) con il passare del tempo anche una forma di diabete. Più in generale fegato, intestino, ma anche cavità nasali e ghiandole sudoripare vengono compromessi dalla malattia di pari passo con la sua progressione.
Purtroppo, fino ad oggi, le cure si sono rivolte principalmente ad alleviare i sintomi e a tentare di arginare l’insorgenza delle complicazioni più pericolose. La fibrosi cistica è, insomma, ancora adesso una brutta bestia da combattere, oltre ad essere clinicamente complessa, variando di persona in persona e portando, statisticamente, ad avere un’aspettativa di vita molto bassa che si attesta all’incirca attorno ai 40 anni. Se pensiamo, però, che fino a 70 anni fa i soggetti affetti da questa malattia difficilmente giungevano in età scolare, molti sono i progressi fatti sin qui. Ecco perché è importante guardare avanti e focalizzarsi su quello che ancora si sta facendo per provare a sconfiggere questa patologia. In particolare, mi riferisco a un recente studio italiano, pubblicato sulla rivista scientifica Journal of Clinical Investigation Insight[2], che svelando quali meccanismi soggiacciono all’azione del Kaftrio (principale farmaco in uso per il trattamento della fibrosi cistica) potrebbero fornire importanti punti di partenza per la comprensione dei meccanismi di interazione tra composti chimici del farmaco e cellule dei bronchi, dando così il via a cure più efficaci sul piano terapeutico.
La ricerca in questione, realizzata grazie al supporto della Fondazione Ricerca Fibrosi Cistica, è stata portata avanti dal Laboratorio di Chimica Analitica dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT), in collaborazione con il gruppo di D3PharmaChemistry e con il gruppo del Laboratorio di Genetica Medica dell’Istituto Giannina Gaslini di Genova.
Sul sito dell’IIT si legge che il «Kaftrio è stato approvato recentemente dall’EMA come trattamento della fibrosi cistica in pazienti di età superiore a 12 anni e che presentino la mutazione F508del del gene CFTR. Tale mutazione è responsabile di una errata regolazione della proteina CTFR, una specie di canale che favorisce il passaggio degli ioni cloruro (ma anche di altri elettroliti) dall’interno all’esterno delle cellule, con conseguente secrezione di acqua. […] Il trattamento con Kaftrio ha dimostrato di migliorare il funzionamento dei polmoni, ma senza che il suo meccanismo biologico fosse ancora del tutto chiaro. Il gruppo di ricerca ha scoperto che le molecole che compongono il farmaco agiscono modificando la composizione lipidica delle membrane delle cellule dei bronchi. Usando tecniche analitiche molto avanzate, gli autori hanno osservato che il trattamento con queste molecole, in particolare con il Kaftrio, conferisce alle cellule una sorta di resistenza al processo, naturale e fisiologico, di morte cellulare, chiamato apoptosi. Questa protezione avviene attraverso la diminuzione dei livelli naturali di una famiglia di lipidi chiamati ceramidi, che hanno un ruolo importante in molti fenomeni biologici, fra cui proprio l’apoptosi»[3].
Non solo, dunque, si potrebbero sviluppare in seguito a questa scoperta, nuove soluzioni terapeutiche più performanti ed efficienti, ma si potrà continuare a battere questa strada per confermare i risultati della ricerca su cellule prelevate direttamente da pazienti affetti da fibrosi così che si possano meglio valutare le differenze tra pazienti e, magari, estendere anche ad altre mutazioni più rare dello stesso gene il tipo di approccio sin qui perseguito, sulla scia di una medicina sempre più “personalizzata”. Come ha affermato Andrea Arminotti, coordinatore del Laboratorio da cui è partita la ricerca: «La nostra scoperta può aprire la strada a nuove prospettive terapeutiche per i malati di fibrosi cistica, gettando le basi per aumentare l’efficacia dei farmaci e il numero di persone che possano beneficiarne. Nonostante le difficoltà che tutti abbiamo affrontato a causa della pandemia, la ricerca non si è mai fermata e questi risultati promettenti ci portano a continuare gli studi con una loro validazione su modelli sperimentali più avanzati».
E noi tutti ci auguriamo che sia proprio così. Avanti tutta.